“Adolescence”: perché questa serie tv ci tocca nel profondo
- Carlo Trionfi
- 11 apr
- Tempo di lettura: 3 min
Adolescence è una miniserie britannica disponibile su Netflix che ha rapidamente conquistato l'attenzione del pubblico e della critica. La trama ruota attorno a Jamie Miller, un tredicenne accusato dell'omicidio di una compagna di classe, e alle indagini che riguardano il processo. Ma a cosa deve, questa serie, il suo successo? Perché ci ha così colpito?
La serie Adolescence, innanzitutto, mette in scena con straordinaria lucidità un tema centrale e spesso trascurato: l’incomunicabilità tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti.
L’impressione che abbiamo, guardando il rapporto tra Jamie e gli adulti di riferimento, è che esistano due universi paralleli che si sfiorano e si osservano, ma non riescono mai veramente a parlarsi. Nel corso della serie vediamo genitori, insegnanti e psicologi fallire nel tentativo di entrare davvero in connessione con il protagonista e con i suoi coetanei.
Il padre di Jamie lo difende, anche provando ad accettare con fatica la realtà, ma non lo conosce: non riesce a leggere i segnali del malessere pregressi all’atto compiuto, né ad avvicinarsi al suo mondo interiore. C’è una distanza emotiva tra loro che non si colma mai. La madre, invece, appare disorientata e a tratti assente: è sintonizzata sul proprio mondo e non su quello del figlio, fatica a gestire le proprie emozioni nel modo adeguato e non riesce a stare accanto a Jamie e a rappresentare per lui un punto fermo.
A fare da contorno, poi, ci sono degli insegnanti e una psicologa che faticano in modo eguale a porsi in comunicazione con lui e i suoi coetanei. I primi appaiono inadeguati e privi di strumenti: osservano ma non intervengono ed hanno a cuore le regole ma non l’empatia, fallendo nella connessione con i ragazzi. La seconda, invece, analizza e cerca spiegazioni, mettendosi nei panni di chi vuole comprendere ed ascoltare, ma rimane solo sulla soglia – senza entrare – nel mondo di Jamie. Fatica, inoltre, a stare in relazione con lui, ossia con la sua sofferenza e la forza irruenta delle sue emozioni, finendo per porre fine in modo drastico al loro rapporto ed alleanza terapeutica.
Accanto a questo primo tema, ne figura poi un altro, che ha a che fare con la delicatezza del periodo adolescenziale: Jamie vive una fase evolutiva nella quale la sua identità è ancora in costruzione. Il suo bisogno di appartenenza è fortissimo e il confronto sociale — nel mondo reale ed online — ha su di lui un effetto devastante, portando ad un’amplificazione delle sue insicurezze. Ecco allora che la Manosfera, lo spazio virtuale dove trovano posto ideologie maschiliste, vittimiste e di odio verso le donne, diventa un posto dove condividere la propria solitudine e un rifugio dove è possibile dare un senso ad essa. La sua esistenza, inoltre, rende possibile uno spostamento della responsabilità: il problema non sta in Jamie, né tantomeno negli altri ragazzi che condividono queste teorie. Il problema sta nel sistema, in un mondo che esclude chi non è sufficientemente bello, carismatico, popolare, voluto (…) e non rispecchia, pertanto, quei canoni di perfezione posseduti solo dal 20% degli uomini. Queste dinamiche rappresentano pertanto il sintomo visibile di un disagio profondo che riguarda la generazione maschile. Tuttavia, se da un lato la Manosfera offre comprensione e legittimazione, dall’altro incentiva un pensiero molto polarizzato e rigido: la community online non offre un modo per uscire dal dolore, ma lo radicalizza, spostando la colpa di tale sofferenza verso l’esterno.
Questi due temi - l’incomunicabilità tra il mondo adulto e quello adolescenziale e la delicatezza di quest’ultimo - conducono ad un’unica conclusione: pensiamo di conoscere gli adolescenti, ma spesso non li conosciamo affatto. C’è di più: non sono non li conosciamo, ma abbiamo anche smesso di ascoltarli, nella convinzione che non serva perché possediamo già le risposte a tutto. Un po’ come se l’essere stati adolescenti dieci, venti, trent’anni prima, possa in qualche modo offrire la chiave di comprensione per l’adolescente attuale. Questa serie ci ricorda quanto invece sia urgente fermarsi ad ascoltare davvero. Non solo con le orecchie, ma con la presenza, con la cura, con l’attenzione ai dettagli. Perché il disagio non sempre si manifesta in modo evidente: a volte vive nei piccoli gesti, nei non detti, in uno sguardo sfuggente o in una frase lasciata a metà. Ascoltare, però, non significa solo fare domande. Significa creare uno spazio sicuro in cui un adolescente possa sentirsi visto, anche se non sa ancora come raccontarsi. Significa accettare la complessità senza volerla semplificare subito e restare, se serve, anche nel disagio.
Dobbiamo quindi aiutare i ragazzi a costruire una visione diversa di sé e degli altri, che non si basi sulla competizione o sulla classificazione, ma sulla vulnerabilità, sull’ascolto e sulla crescita personale. Il nostro compito dev’essere quello di insegnare loro che può esserci un’altra storia, ossia una nuova narrazione del loro mondo interiore nella quale possano ritrovarsi.

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