La Dimensione Materna in Psicologia: Il Cuore delle Relazioni Umane
- Carlo Trionfi
- 8 mag
- Tempo di lettura: 3 min
Quando pensiamo alla maternità, di solito ci viene in mente una madre con il suo bambino: un’immagine di affetto, protezione, presenza. In psicologia, però, il “materno” non si riferisce solo alla madre biologica. È molto di più: è una funzione fondamentale per lo sviluppo emotivo e relazionale di ogni essere umano. Riguarda il modo in cui veniamo accuditi, contenuti, capiti e amati nei primi anni di vita, ed è qualcosa che continua a influenzarci anche da adulti, nei legami affettivi, nella fiducia in noi stessi e nella nostra capacità di prenderci cura degli altri.
Prendersi cura: il materno come esperienza relazionale
Il materno, in psicologia, non coincide semplicemente con la figura della madre biologica. Quando uno psicologo parla di "funzione materna", si riferisce alla capacità di offrire protezione, cura, presenza e ascolto nei momenti di bisogno… Con riferimento, però, a qualcosa che può essere svolto anche da un padre, da un nonno, da un educatore o da un terapeuta. La maternità, dunque, è una funzione relazionale: è il modo in cui una persona si prende cura dell’altro in una fase in cui quest’ultimo è fragile, dipendente, bisognoso di essere visto e accolto. Ne consegue che la relazione con chi si prende cura di noi nei primissimi mesi e anni di vita sia fondamentale. Il neonato non nasce “con una mente pronta”: ha bisogno del contatto, dello sguardo, della voce e della sensibilità dell’adulto per sviluppare sicurezza, fiducia e un senso stabile di sé. Se questa figura di riferimento (di solito la madre, ma non necessariamente) è capace di rispondere in modo sensibile e amorevole ai bisogni del bambino, si crea un senso interno di sicurezza che accompagnerà quella persona per tutta la vita. Al contrario, se la cura è assente, discontinua o confusa, possono svilupparsi ansie profonde, difficoltà a fidarsi degli altri o a sentirsi degni d’amore.
Sguardi psicoanalitici sulla funzione materna
Sulla dimensione materna, si sono espressi diversi psicoanalisti. Sigmund Freud considerava la madre come prima figura significativa per lo sviluppo psichico, identificandola come il primo oggetto d’amore, fonte primaria di soddisfazione dei bisogni e dunque prototipo di ogni futura relazione oggettuale. Tuttavia, nella visione freudiana classica, l’attenzione si spostava rapidamente sul complesso edipico e sulla figura paterna, relegando la madre a un ruolo relativamente passivo.
Lo psicologo Donald Winnicott, invece, assegnava un ruolo centralissimo alla dimensione materna, parlando di “madre sufficientemente buona”. Con questo termine intendeva una figura capace di accogliere il bambino nei suoi bisogni fisici ed emotivi, di proteggerlo quando è vulnerabile, di esserci con costanza (ma senza essere perfetta) e gradualmente lasciarlo andare, aiutandolo a diventare autonomo. Il concetto chiave è che non serve essere genitori perfetti, ma presenti e capaci di adattarsi con sensibilità.
Allo stesso modo, lo psichiatra Carl Gustav Jung parlava di “grande madre” come un simbolo universale presente nell’inconscio collettivo. Questa figura sarebbe rappresentata in tutte le culture attraverso immagini come la terra, l’acqua, la luna, o figure come la Madonna o la dea madre. Secondo Jung, dentro ognuno di noi ci sono aspetti “materni”: la capacità di accogliere, di proteggere, ma anche il rischio di essere troppo fusionali, soffocanti o possessivi. La maternità, dunque, non è solo luce e calore, ma può contenere anche ombre, fatiche e ambivalenze.
Le teorie di Jung, Klein e Winnicott ci offrono tre prospettive complementari sulla dimensione materna. In modi diversi, tutti e tre ci ricordano quanto sia centrale questa funzione nel costruire la mente, la capacità di amare, e il senso di sé. In particolare, ci mostrano anche che questa funzione non è legata solo al ruolo biologico di madre, ma è qualcosa che può essere esercitato e vissuto in molte forme: come genitori, terapeuti, educatori, o semplicemente come esseri umani in relazione. Nella relazione terapeutica, ad esempio, il terapeuta può offrire una sorta di funzione materna “riparativa”, trasmettendo presenza costante, ascolto empatico e accoglienza senza giudizio. Per chi ha avuto esperienze precoci di carenza affettiva, quindi, questo può diventare un luogo dove ricostruire fiducia, sicurezza e una nuova immagine di sé.
Più in generale, possiamo affermare che riscoprire il valore del “materno” oggi significhi coltivare uno spazio in cui l’ascolto, la presenza e la cura possano avere voce. Significa riconoscere che anche nella vita adulta – e persino nei contesti più inaspettati – c'è bisogno di accoglienza, di tenerezza e di quella forma di amore che non pretende, ma sostiene. In fondo, il materno ci ricorda che non esistiamo da soli: cresciamo e ci definiamo sempre anche attraverso la presenza e lo sguardo dell’altro.

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